Lo spazio è un dubbio: è il dubbio dei luoghi che non esistono più. Occorre fermarli con un’immagine, perché fotografarli significa cercare meticolosamente di trattenere qualcosa. La sfera di questo tentativo, operato attraverso l’inventario dei diversi tipi di spazi, viene usata come fenomeno di natura essenzialmente fisica, fotografare significa occupare una porzione di spazio e la conferma dell’intrinseca essenza di questo rapporto è offerta in un gioco di identità fra il segno linguistico e la sua collocazione spaziale.
Lo sforzo di trattenere e rappresentare lo stato dei luoghi, meglio definibile come l’architettura dimenticata, come il segno del tempo che passa sul corpo degli edifici, corrisponde esattamente alla possibilità di catalogare, al senso delle cose che fuggono, i cambiamenti che si perdono, sfumandosi nella memoria che solo per illusione contiene tutto esattamente, lo spazio, che non è possibile pensare. Tutto ciò è lo spazio dell’appropriazione dell’esperienza che corrisponde all’azione del fotografare.
Lorenzo Linthout nasce nel 1974 a Verona, città nella quale vive. A ventiquattro anni si laurea presso la Facoltà di Architettura “Biagio Rossetti” dell’Università degli Studi di Ferrara. Agli studi di architettura unisce il concetto dell’immagine con l’intento di “vedere” e “fermare” l’istante di un momento attraverso gli ingranaggi dell’universo fotografico astraendone significati spazio-temporali dal mondo reale per portarli su di una superficie bidimensionale, creando un ponte reale fra codifica e decodifica di fenomeni ed immagini.
Predilige il tema dell’urban-street che, associato al continuo interrogativo del rapporto fra incomunicabilità e spazi urbani, fra l’uomo e l’architettura, fra l’indicibilità del reale e la solitudine del soggetto -temi che ritiene onnipresenti di questo secolo- cerca di fermarli attraverso immagini dal carattere metafisico.
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