I volti nascosti nelle vetrine. Passeggiando per le vie delle città spesso ci lasciamo rapire dai colori sgargianti dei prodotti esposti nelle vetrine, moderne sirene che ci attraggono, ci ipnotizzano, catalizzano fino all’ultimo briciolo della nostra attenzione. Ma forse, altrettanto spesso, non ci accorgiamo che vi sono delle figure, semplici sagome perlopiù, che sembrano osservarci, e alle quali doniamo, il più delle volte, solamente uno sguardo fuggevole. Sono loro i manichini, figure dimenticate e sopraffatte da prezzi, cartellini e oggetti che paiono sempre avere più importanza di loro; spesso semplici moncherini, privi di un vero e proprio viso, con gli occhi chiusi, le ciglia lunghe e nere a celare lo sguardo, la bocca ridotta a un’imitazione, incapace di parlare.
Io, mi son fermato la prima volta ad osservarne uno ad Asti. Indossava un grazioso cappello da sposa. Ma il mio occhio curioso, forse supportato da una fantasia un po’ troppo fervida, mi ha mostrato ben altro: due visi, uno sofferente, l’altro meno, entrambi posizionati su un unico collo lungo e sinuoso.
Da qui ho iniziato un viaggio di scoperta incredibile. Più il manichino è impersonale, lontano dai tradizionali tratti somatici umani, più facile e interessante diventa per me dargli un volto. Un po’ come i robot di Asimov, ieratici e affascinanti al tempo stesso, lì ho trovati pronti per esser trasformati in qualcosa che avesse una forza diversa, capace di mostrare la loro bellezza minimale. Almeno inizialmente, il lavoro non è stato semplice: la singola forma mal si prestava alla fotografia, almeno nella mia concezione. Non riuscivo a dar loro un “carattere”, parevano una lunga teoria di figure anonime, come nelle vetrine così nelle mie foto.
Fu tornando nuovamente sul luogo del misfatto, davanti a quel negozio di Asti dove tutto era iniziato, che riuscii finalmente a trovare il bandolo della matassa: il tutto grazie a un manichino estremamente stilizzato che mi osservava, vestito solo di una sorta di foulard. Quella figura umanoide era la mia tavolozza, non il risultato finale. Su di esso potevo dipingere sfruttando tutto quello che lo circondava. Avevo piena libertà. I risultati migliori li ho ottenuti fotografando di notte o al mattino presto, quando l’unica fonte di luce disponibile era quella della vetrina stessa. E proprio in questi momenti fugaci, quasi onirici, iniziò a prendere forma un parallelo che soltanto ora mi sembra sempre più evidente, quello con De Chirico. Quel pezzo di legno con un foulard ad avvolgerlo diventa pura metafisica. Da allora non mi sono più fermato, ho girato le vie d’Italia (e un poco d’Europa) per trovare vetrine che potessero raccontare storie, emozioni e sensazioni da trasmettere con uno scatto. Un doveroso grazie va a tutti i negozianti sparsi per le città che, pazientemente, hanno accettato un fotografo invadente davanti ai loro negozi. E un altro grazie va ad Arianna Borgoglio, per aver scritto dei miei manichini e, in fondo, per aver scritto di me.
Altre info: fotorobit.it
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