La battaglia per mantenere una qualche parvenza di privacy nelle nostre vite online è la classica situazione “un passo avanti, due passi indietro”. Non appena ci sembra di aver capito come funziona qualcosa e come porvi rimedio, ecco che veniamo colpiti da notizie di qualcuno che spia sulla nostra privacy. Non ultimi, i governi, nazionali e non (vedi l’NSA, National Security Agency negli USA che spia continuamente anche noi).
Una delle ultime situazioni “due passi indietro”? Le agenzie governative di spionaggio di USA e Gran Bretagna raccolgono i nostri dati e le informazioni che condividiamo sui social network, per motivi non specificati.
Non solo, sia Apple che Android hanno recentemente introdotto nuovi sistemi per farci arrivare pubblicità mirate a ciascuno di noi, ovviamente dopo aver raccolto anche loro i nostri dati. Questa potrebbe sembrare una cattiva notizia, ma la nota positiva è che, in seguito alla protesta generale degli utenti Apple e Android, entrambe le compagnie hanno sviluppato nuovi protocolli per mantenere i dati anonimi. Vedremo.
Bisogna essere onesti, nella realtà del mondo in cui viviamo bisogna accettare una cerata quantità non solo di pubblicità, ma di pubblicità creativa. La maggior parte delle informazioni che si trovano su internet sono gratis e il prezzo da pagare è la pubblicità. Ma i continui mutamenti tecnologici, e il vantaggio che le aziende hanno su di noi riguardo la comprensione delle tecnologie, hanno creato una situazione di eccessi e pericolosità.
In teoria, i dati che le aziende raccolgono dovrebbero essere anonimi. Loro sanno che un certo utente, a cui viene assegnato un certo numero identificativo, compra regolarmente cibo per gatti, guarda film d’azione e legge notizie di sport, non che sei tu, Mario Rossi, che fa tutte queste cose. In teoria.
E già, la maggior parte di Internet è gratis; che problema c’è se fanno qualche piccolo tracciamento di dati? In realtà non è solo una questione di tracciamento, ma di tracciamento e immagazzinamento di questi dati. Ed è una quantità di dati enorme che, come possiamo immaginare, può formare un quadro completo di ogni utente.
Le implicazioni sono ovviamente gravi. È noto il caso di quel signore negli USA che, infuriato, che chiamò il negozio online Target perché sua figlia di 16 anni veniva bombardata di pubblicità sulle donne in dolce attesa. In seguito richiamò il negozio per scusarsi: sua figlia era veramente incinta. L’invasione nella privacy della ragazza aveva consentito al negozio di sapere della sua gravidanza prima del padre.
L’Immagazzinamento di questi dati vuol dire che, prima o poi, qualcun altro potrebbe utilizzarli. Come abbiamo visto, le agenzie dell’intelligenza (non le chiamiamo “di spionaggio”) in USA e Gran Bretagna hanno messo le mani sui nostri dati personali su Facebook e i tracciamenti di “mi piace”, commenti e quant’altro.
Immaginate un governo che promulgasse una legge che ci obbliga tutti ad indossare dei GPS e a fornire informazioni sulle nostre abitudini personali, sui nostri acquisti e sul nostro tempo libero. Sarete d’accordo sul fatto che si solleverebbe una protesta generale. E allora perché accettiamo di essere essenzialmente volontari nel fornire tutte queste informazioni, sapendo che potrebbero venire usate per scopi anche illegali?
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